La consulenza psicologica nel paziente con dolore cronico: riflessioni.

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Dott.ssa Laura Ravaioli

Per lungo tempo le discipline mediche e quelle psicologiche hanno cercato di tracciare una linea di demarcazione tra patologie organiche e mentali, esasperando talvolta le posizioni teoriche al punto da violare la natura stessa dell’uomo in cui mente-corpo vivono di relazioni reciproche. Ricordando Schultz (che ha ideato la tecnica di rilassamento psicocorporea denominata Training Autogeno)

“Anche l’esistenza di disturbi organici strutturati non costituisce di per sé una controindicazione alla psicoterapia; vien anzi da chiedersi fino a che punto, accanto alle irreversibili deficienze del soma, giocano nella malattia organica dei fattori funzionali che sommandosi con i precedenti si offrono a noi caratterizzando il quadro sindromico” (J.H.Schultz)

dolore cronico

Questa reciprocità rende dunque necessario rilevare nella valutazione del dolore quella componente emotiva di sofferenza psicologica correlata al dolore cronico, che può essere una conseguenza delle gravi limitazioni imposte dalla malattia ma che può anche agire attivamente sulla percezione soggettiva del dolore (rinforzo psicologico del dolore e vantaggio secondario di malattia).

Talvolta questa reciprocità può ricollegarsi al concetto di malattia “appendiabiti”, come evidenziato nella disabilità in cui l’handicap, soprattutto se fisico, ha la funzione di “appendiabiti” in cui “appendere i propri conflitti”: la persona disabile rischia dunque di rinunciare all’azione o finisce per isolarsi dal contesto sociale adducendo come motivazione la disabilità; ma in taluni casi la disabilità non incide così fortemente e talvolta addirittura determina una minore invalidità rispetto ad altri conflitti interni.

Nel dolore che rende disabili si possono ugualmente incontrare pazienti che riconducono il proprio disagio psicologico o le proprie difficoltà relazionali alla patologia algologica che risulta così non solo influenzata ma rinforzata. Ritengo molto importante nel lavoro con il paziente con dolore la valutazione della capacità di comunicare il proprio disagio psicologico; con “alexitimia” si intende l’ incapacità di mentalizzare, cioè di trasferire in linguaggio, in metafore, in espressioni linguistiche i propri sentimenti, stati d’animo.

R.Rossi nel trattato “La depressione mascherata” a cura di Pancheri chiarisce che questa incapacità di esprimere i vissuti è legata a “una difficoltà nel tradurre i vissuti corporei in parole, lessico ed immagini, tramite una sorta di operazione creativa linguistica.” Se lo “strumento traduttore” – funzione del preconscio – manca, “il vissuto del corpo non può che esprimersi come dolore, senso di peso gastrico, oppressione al torace, stanchezza fino al malfunzionamento diretto del corpo, mentre termini come tristezza, essere giù, essere disperati sono sconosciuti” (R.Rossi, “L’esile maschera. Psicopatologia e psicodinamica della depressione mascherata” in “La depressione mascherata” a cura di Pancheri, 2006).

Sono questi i casi in cui più facilmente riscontriamo una componente psicogena del dolore, che determina, amplifica o contribuisce a mantenere una patologia dolorosa.

Provocatoriamente, Rossi si chiede se più spesso non sia lo psichiatra, o il medico, ad essere alessitimico, “privilegiando il somatico e perdendo di vista la vita interiore del paziente e avendo scarso interesse verso i sintomi depressivi, quando non siano del tutto evidenti”.

In realtà basterebbe ritornare alle origini, a Ippocrate, che evidenziava già allora la necessità per il medico di conoscere i vissuti ed il contesto sociale e ambientale in cui il paziente è immerso.